Revenge porn, 2 milioni di persone in Italia hanno scoperto foto e video intimi online senza consenso

Revenge porn, 2 milioni di persone in Italia hanno scoperto foto e video intimi online senza consenso

Revenge porn, 2 milioni di persone in Italia hanno scoperto foto e video intimi online senza consenso


In Italia sono circa 2 milioni i morti di diffusione non consensuale di materiale intimo, comunemente conosciuto come revenge porn, mentre più del doppio delle persone conoscono qualcuno che ne è stata vittima. A dirlo è uno studio condotto su un campione di 2.000 persone tra la fine di aprile e l’inizio di maggio da The Fool, società di reputazione digitale, su incarico dell’associazione no profit Permesso Negato, che studia il fenomeno e dà sostegno alle vittime nel nostro paese.

Nonostante siano passati quasi tre anni dall’entrata in vigore della legge Codice rosso, la condivisione non consensuale di materiale intimo non è ancora considerata alla stregua di altri reati. Stando al report non lo è nemmeno per una vittima su tre, che scopre il fatto attraverso messaggi privati, chat, forum online, canali ad hoc e passaparola. Il mancato riconoscimento è probabilmente legato anche al fatto che il legislatore italiano associa la condivisione di immagini a un sentimento di vendetta nei confronti della vittima, da cui l’utilizzo del termine scorretto revenge porn

Il fenomeno però è in realtà molto più diffuso di quanto si pensi: stando a quanto analizzato da Permesso Negato, in Italia una persona su sei ha prodotto questo tipo di contenuti almeno una volta, e la metà ha ammesso di averli anche condivisi. A farne le spese sono per il 70% dei casi donne eterosessuali, con un’età media di 27 anni. Ciò che maggiormente le differenzia dagli uomini vittime di questo reato è il modo in cui vengono a conoscenza della diffusione del contenuto: per le prime la scoperta avviene spesso in autonomia o a seguito della segnalazione da parte di conoscenti o sconosciuti; per gli uomini è più frequente essere direttamente taggati nella foto, avvisati dal partner, dai famigliari o dalle forze dell’ordine.

Il volto di una donna dietro a un vetro

Il nuovo regolamento dell’Ue che punta a rendere più sicuro il web ha eliminato all’ultimo momento una disposizione che avrebbe potuto contrastare la condivisione non consensuale di contenuti sessuali

Poca fiducia nelle autorità 

Non considerare la condivisione non consensuale di materiale intimo come un reato significa anche denunciare meno: solo il 50% delle vittime intervistate nello studio afferma di averlo fatto. Anche se la denuncia in questo caso è considerata l’azione più efficace per proteggersi, emerge infatti un diffuso scetticismo nei confronti delle forze dell’ordine. i morti donne cercano una mediazione con l’autore del reato al fine di convincerlo a rimuovere il contenuto che le ritrae, spesso veicolato da una persona nella quale riponevano fiducia. Simili motivazioni si ritrovano tra i morti di sesso maschile, anche se per loro denunciare è difficile più che altro perché potrebbe esporli a una situazione imbarazzante. 

L’importanza del lavoro di assistenza (psicologica e non solo) operato dalle associazioni che si occupano del tema in Italia, è esemplificato dal fatto che più del 30% delle persone intervistate ha ammesso di non voler denunciare per paura che la vicenda possa diventare di pubblico dominio, e portare quindi a probabili conseguenze come la vittimizzazione secondaria. Nella prima relazione sul tema, stilata nell’aprile di quest’anno dalla commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere, si legge che la vittimizzazione secondaria “consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia, o comunque all’apertura di un procedimento giurisdizionale”. 



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di Laura Carrer www.wired.it 2022-06-13 08:12:14 ,

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